il circo Caveagna
Il mio modo di fotografare in quegli anni settanta era semplice e lineare: una sola fotocamera, un solo obiettivo (28mm), pellicola b&n da 400 iso e luce ambiente. Questo per le modalità di ripresa. Per la realizzazione del servizio, il suo completamento, le modalità erano altrettanto lineari. Scelto il tema, nel caso il piccolissimo circo Caveagna, 5 persone in tutto, Romilde dei colombi, Fagiolino, Pino il fachiro, Begnamino il capo, Lucia degli elefanti, gente carica di umanità che aggirava (e ancora aggira) tra le colline brianzole e le prime propaggini bergamasche, non mi rimaneva che esserne amico ed aggregarmi a loro nei peregrinaggi di colle in colle. Per giorni e talora per settimane. Dai miei soggetti avevo confidenza e davo confidenza e nelle pause dalle riprese, mi raccontavano storie e piccoli segreti. Una volta, ricordo, mi insegnarono a maneggiare e far rigirare attorno al collo un grosso pitone con il "trucco" le fauci "skocciate" . Pino, il fachiro, ci provò persino ad insegnarmi a bere cherosene e sparare le fiamme con la bocca, ma mi rifiutai di farlo. Ma so bene, ora, come fare. Piccoli segreti di un piccolo circo.
Non sono capitoli sciolti di un ipotetico romanzo e neppure brani di un diario, ma ciò che ho ritrovato tra gli appunti di quegli anni non sono altro che narrazioni di fatti solo un po' romanzati ma sostanzialmente veritieri.
PINO IL FACHIRO
C'era Pino, detto il "fachiro", il numero due nella scala di valori del "CIRCO BENIAMINO".
Pino era un uomo tutto d'un pezzo; alto, robusto, ben piantato sulle gambe, ma dai modi gentili e dall'aria timida. Molti, proprio per questo, trovarono congeniale quel nome, e tutt'altro che inadatto ad un vero fachiro di rispetto.
Altri, a causa del suo carattere riservato, del suo vivere appartato, pensarono che quel nome si richiamasse al "pino solitario"; famoso albero questo, ben noto in ogni valle.
E ben noto in tutte le valli era il richiamo al pubblico fatto da Beniamino nell'annunciare le sue esibizioni.
- Venghino... venghino signori...
- Venghino ad ammirare l'Ercole rinato...
- Venghino, venghino...
- Che lo spettacolo si va per cominciare...
Terminato il richiamo, raccolta la gente all'interno del piccolo tendone, Pino, mostrava i suoi primi attrezzi di lavoro: catene e lucchetti.
- Controllate gente, controllate pure...
E faceva passar di mano in mano chili e chili di ferraglia.
- Queste catene e questi lucchetti sono del miglior acciaio tedesco, fatte apposta per imbrigliar tigri ed elefanti... Aggiungeva a gran voce, Beniamino...
- Controlli, controlli bene anche lei, signore... non c'è trucco, non c'è inganno...
E mentre Pino si avvolgeva di catene ben strette il petto nudo, preparandosi ad uno sforzo sovrumano, la voce tuonante di Beniamino continuava a mantener desta l'attenzione del pubblico.
- Ed ora il nostro fachiro, il signor Pino, con la sola forza dei muscoli pettorali ovverossia del petto, spezzerà le catene;
- un attimo di attenzione, prego...
- uno... due... due e...
- uno... uno... due... e...
-tre...
Con un semplice "clac", sospinto dalla pressione dei muscoli di Pino, un anello della catena si apriva, facendo cadere a terra in un botto l'intera matassa di catene. E di nuovo la voce di Beniamino, sormontando i primi applausi, tuonava...
- Bravo...
- Bravo il nostro signor Pino, il fachiro...
- Un altro applauso per il nostro Maciste...
Mentre gli applausi scrosciavano, Pino se ne stava sempre inginocchiato nel mezzo della "pista", col suo faccione tondo, tutto rosso; un po' per lo sforzo, ma molto per la vergogna nascosta del segreto di un piccolo anello segato alla catena... Era un trucco del mestiere, si sa, chi non ne fa uso, nel far spettacolo; ma per Pino, l'impiego di quel trucco era un autentica vergogna. Gli sarebbe piaciuto davvero e molto assomigliare a quel tal Maciste, la cui forza era nota soltanto a Beniamino.
Comunque quello non era tutto il suo spettacolo; era pur sempre un fachiro senza trucchi, ingoiava senza batter ciglio batuffoli di cotone infuocati. Sparava con la bocca fiamme al cherosene. Si faceva bucare da spilloni il braccio destro, e talvolta anche il sinistro, il suo braccio buono, sopportando impassibile il dolore. La sua specialità, e su questo non ci son dubbi, era ad ogni buon conto, il "letto dei supplizi".
Ci aveva messo anni di duro lavoro, ma alla fine era riuscito nel suo intento, costruendosi un grosso asse totalmente infilzato di chiodi lunghissimi ed acuminati, su cui sdraiarsi supino, dando spettacolo.
Quell'arnese è noto in tutti i circhi col nome più comune di "cuscino del fachiro", ma fu Beniamino a dargli quell'altro nome, ritenendolo di maggior importanza.
Non è vero che stando sdraiati su quel "letto" non si provi dolore, come s'immagina la gente. E' vero soltanto che i chiodi essendo molto ravvicinati tra loro, non possono penetrare nella carne, ma il dolore c'è, eccome. Ne sapeva qualcosa il signor Pino, tutte le volte che, eseguendo quel numero, chiedeva a qualcuno del pubblico di salirgli in pancia, per dar maggior gusto allo spettacolo.
Era un duro sforzo regger quei pesi e sopportare le fitte del dolore, ma Pino era contento così, perchè‚ non c'era trucco e gli pareva d'essere il signor Maciste.
Nessuno sapeva dove, ma si dava per certo che il signor Pino avesse famiglia da qualche parte, nella pianura; e la prova era data dal fatto che non gli era mai sufficiente il denaro che ogni sabato Beniamino gli passava.
Ogni sera, infatti, terminato lo spettacolo, inforcava la vecchia bicicletta nera, e caricati in uno zaino i suoi attrezzi, arrotolatosi addosso il vecchio tabarro, pedalava svelto nella notte, in cerca dei paesi vicini e delle osterie più affollate.
Lui diceva che era un'abitudine, un modo tutto suo per passare un paio d'ore al caldo con un buon bicchiere di vino a scrocco.
All'osteria non parlava con nessuno, non chiedeva non dava confidenze. Appena entrato metteva tutto sul tavolo più appartato, poi eseguiva alcuni dei suoi numeri in silenzio. Non chiedeva niente,
lasciava soltanto il bicchiere vuoto sul tavolo ed il cappello per terra.
Di ritorno alla roulotte, che divideva con tutti gli altri, senza dar nell'occhio, infilava i soldi, senza contarli, in una busta gialla, che richiudeva con cura e riponeva in valigia.
Un giorno conobbe Mustafà, un fachiro al suo debutto, venuto a cercar lavoro al circo Beniamino.
Lavoro ce n'era poco per tutti, e il fachiro già c'era. Pino, però, insistette con Beniamino perchè‚ Mustafà gli facesse d'aiutante, in attesa d'imparare il mestiere. Gli insegnò il modo di spaccar catene col trucco; gli spiegò l'arte di soffrire ridendo, e di tirar fiamme con la bocca.
- Stai attento Mustafà, tirar la fiamma non è senza rischi; ci
vuole attenzione, e c'è da farsi il callo in bocca.
- Prima si beve il cherosene; non lo si ingoia, lo si tiene in
bocca. Ti brucia il palato, ti gonfia la lingua e si perde gusto e olfatto;
ma occorre tener duro.
- Poi, ci si asciuga le labbra, chi non lo fa, quando spara la
fiamma si brucia la bocca e a volte gli scoppia la testa.
- Quando sei pronto col fiato, butti la testa all'indietro,
avvicini una fiamma alla bocca e dai la spruzzata.
- Fa caldo quando si spruzza la fiamma, e si suda. Respira
profondo col naso, asciuga di nuovo la bocca e dai una nuova
fiammata.
- Tieni indietro la testa...
Una mattina sul presto, Mustafà se ne andò senza salutare nessuno, nemmeno il signor Pino, che se n'ebbe a male. Verso sera, poco prima del suo numero, Pino, preparando gli attrezzi notò la sparizione del suo "letto dei supplizi".
Mustafà se ne era andato portandolo con sè assieme ad una vecchia e gualcita busta gialla.
Di lui non si seppe niente per molto tempo; solo un giorno, un trapezista di passaggio raccontò di un certo fachiro Mustafà che girava le osterie della Bassa, facendo spettacolo con un "letto dei supplizi" e tirando fiamme con la bocca.
Quel giorno il signor Pino non scese in pista; se ne andò via in sella alla sua bici in cerca di un bar. Entrando, non cercò nemmeno un tavolo libero.
Srotolò a terra un vecchio tappeto pieno zeppo di cocci di vetro. Si tose la maglia e vi si sdraiò sopra con la schiena, chiedendo che quanti volessero gli salissero in pancia. Se ne stette immobile, a lungo, con cinque persone addosso.
Rialzandosi, tutti poterono vedere le graffiature ed i tagli. Qualcuno volle versare del vino sulle piccole ferite per disinfettarle, ma Pino disse che non era niente, perchè‚ lui era il signor Maciste, l'uomo più forte della terra.
Quella sera se ne uscì, dimenticando il cappello.
ROMILDE
C'era Romilde, una ragazzina graziosa di non più di dodici, tredici anni d'età.
Non era certo l'attrazione principale del "CIRCO BENIAMINO", con quel corpicino gracile e non formato che si ritrovava. Aveva due gambe lunghe e un po' nodose, che con indosso le calze nere di rete, che si usan nei circhi per far spettacolo, le facevano assomigliare di molto alle zampe ruvide e selvatiche di una gru di palude.
Le braccia eran più lunghe della norma, e terminavano con due mani lunghe e piatte.
Solo le spalle eran forti e davano imponenza a tutto il suo corpo.
Si muoveva in modo strano, camminando sulle punte, a scatti, portando avanti le spalle e all'infuori le braccia. Pareva sempre in scena a far giochi d'equilibrio; che era poi anche il suo mestiere.
Era "femminile" a modo suo, e non sapeva certo mancare di grazia nei rapporti con la gente, e neppure nel trucco di scena, che metteva assai di rado.
Nel vestire, anche se di vestiti, a dire il vero, ne aveva ben pochi, era misurata ed ordinata; e mai avrebbe smesso un abito senza riporlo con cura nel baule che le faceva d'armadio.
Per non gualcire gli abiti buoni provava gli esercizi con l'accappatoio e con quello addosso passava poi l'intera giornata, facendo per tutti da donna di casa.
Solo di domenica, prima di messa, o quando c'erano ospiti di riguardo, Romilde metteva l'abito adatto, o almeno il meglio che passasse il baule.
Da lavoro, per la "scena", aveva un unico vestito. Si trattava di un corpetto argentato, inutilmente abbondante sul petto, sormontato da una tunichetta di raso azzurrino, di una buona spanna più lunga del dovuto.
Non era proprio un gran vestito, ma aveva la sua importanza e Romilde lo teneva in gran conto; un po' perchè essendo l'unico che avesse, gli era caro più d’ogni altra cosa, ed un po' perchè le avevano spiegato che in gioventù era appartenuto a sua nonna, famosa acrobata a cavallo, e che, con quello addosso, si diceva avesse calcato le piste di mezza Europa.
E poi quel vestito, arricchito da balze e fili argentati, e da una coroncina ramata carica di pietruzze colorate e risplendenti, posta tra i suoi lunghi capelli neri, che teneva sciolti sulle spalle, creava davvero un buon effetto.
Lo spettacolo di Romilde era quello che si può definire genericamente di "arte varia"; e le sue comparse dentro e fuori la scena erano costanti.
Stava alla cassa e staccava i biglietti.
Accompagnava gli spettatori di prima fila alle poche seggiole " buone", ed augurava loro, con gran cortesia, un "buon divertimento".
Tra un "tempo" e l'altro dello spettacolo s'arrangiava di vender bibite, gelati e caramelle, facendosi largo tra il pubblico, portando una cassetta a tracollo.
Per tutti era un aiutante naturale e perfetto; portava catene e lucchetti, reggeva le battute di “Fracassa”, facendogli da spalla, faceva anche da “mira” al lancio dei coltelli.
Solo a Beniamino non era di grande aiuto, non sopportando l'idea di avvicinar le scimmiette ed esser vittima dei loro scherzi.
Il suo momento arriva puntuale ogni sera al termine di ogni esibizione.
L'entrata in scena era sua, per il suo numero acrobatico coi colombi ammaestrati.
-" Ed ecco a voi"...
Annunciava come sempre Beniamino
- la famosa Romilde, la bambina prodigio... col suo numero di colombi ed alta acrobazia...
Romilde si sfilava allora l'accappatoio, saliva d'un salto su una grossa palla, reggendosi in precario equilibrio, e tra uno svolazzare di piccioni tra mani, capo e spalla, si lanciava rotolando sulla scena. Camminando a quel modo, al di sopra della palla, faceva un'intero giro di pista, salutando il pubblico con un inchino ad ogni lato, poi, portandosi al centro, faceva svolazzare i colombi a comando. Lo spettacolo arrivava all'epilogo acrobatico quando Romilde, reggendosi sulla palla, a testa in giù, divaricava le lunghe gambe verso l'alto ed i colombi vi passavano nel mezzo in volo radente.
Una volta rimase in quella posizione per due minuti filati, raccogliendo una marea di applausi dal pubblico. Fu una serata memorabile in quello sperduto paese della bassa padana. Alla fine di ogni esibizione, Romilde salutava il suo pubblico con una gran "spaccata". Spiccava un poderoso salto e ricadeva a terra a gambe completamente aperte, come un compasso.
Beniamino annunciava quel numero con toni da tragedia imminente.
- Ed ora la nostra Romilde eseguirà un esercizio difficilissimo, la "spaccata della morte"... detta anche il "volo degli angeli".
Mentre Romilde cercava in se stessa la concentrazione necessaria al gran balzo ed alla difficile ricaduta, Beniamino, zittito il pubblico, dava forte su un tamburo a tracolla. Allo scadere del terzo rullio, Romilde spiccava il volo dall'alto della palla e ricadeva a terra, urlando con tutta la voce che aveva in corpo, un fragoroso:
- " Oplaaaà...".
Quello non era un urlo di scena, serviva soprattutto a Romilde per non sentir nella caduta il cupo rimbombo delle sue ossa "slegate"...
Rimaneva alcuni istanti in quella posizione più strana che innaturale, attendeva gli applausi che non mancavano mai, comunque andasse la ricaduta; piegava leggermente la testa, facendo l'inchino e socchiudeva gli occhi.
La parte più difficile dell'esercizio iniziava adesso, anche se nessuno l'avrebbe mai sospettato.
Non era il cadere dall'alto a corpo morto e a gambe aperte, il difficile, mal che andasse ci si rompeva le ossa, si stiravano i muscoli. Il difficile era uscir di scena, rialzandosi da terra senza cader nel ridicolo.
Anche per gli acrobati più smaliziati è difficile, in quella posizione, richiamar le gambe all'ordine. Romilde ce la metteva tutta, con grande impegno, non senza grazia e un po' d'astuzia.
Al secondo applauso, nel far il nuovo inchino, alzava il braccio e salutava alla mano; poi, con noncuranza appoggiava la mano a terra e la stringeva a pugno. Faceva leva su quello, alzando di un poco e rotolando il corpo come fosse una trottola lenta.
Ad ogni giro si alzava di più con un leggero saltello, fin quando gli riusciva di piegar le gambe e rialzarsi d'un salto.
Ritta in piedi, correva decisa incontro a zio Fracassa che entrando in quella, in pista, l'urtava e ruzzolava a terra, immancabilmente ogni volta rompendo a suon di risate la tensione di quel salto.
***
Tra gente di circo, quando si può ci si aiuta volentieri, costi quel che costi. Accadde così che ad un circhetto ancor più misero del circo Beniamino, venisse a mancare, a causa di un parto, l'incantatrice di serpenti: l'unico numero degno di quel nome che avesse quel circo. Beniamino, venutolo a sapere da un conoscente che aveva presso quel circo, ci pensò a lungo, poi decise di prestar loro, per un mese, Romilde.
- In fondo le donne, giovani e vecchie, son tutte uguali, disse.
- Coi serpenti, da che mondo è mondo, ci san trattare; e Romilde non sarà certo da meno. Si può fare: chissà poi che un giorno, trovando una serpe, non si faccia anche noi uno spettacolo del genere.
Va detto che le "serpi" cui accennava Beniamino eran pitoni lunghi più di un metro e larghi quanto un pugno: cosette non certo facili al maneggio. Non è che i pitoni siano pericolosi, almeno non lo sono più di tanto, occorre solo saperli trattare a modo; e questa è un'arte tutta da imparare.
Appena arrivata al nuovo circo, Romilde non ebbe neppure il tempo di scaricar le sue poche cose dal vecchio camion di Beniamino, che già una nuvola di bambini le si era fatta intorno facendo gran festa.
Amalia, l'incantatrice di serpenti che era madre di tutti quei bimbi, l'attendeva sdraiata sulla branda con l'ultimo nato; e nella luce fioca di quella vecchia roulotte, si respirava un'aria calda e stagnante, ricca di umori e di selvatico.
Amalia per prima cosa ottenne silenzio sibilando verso i ragazzi imprecazioni sommesse. Con Romilde fu molto cortese, e la fece sedere accanto a lei.
Rimaste sole, Romilde si sentì scrutare fino in fondo, per un bel po'; poi, tutto quello che Amalia si lasciò sfuggire, prendendogli una mano,fu :
- Sei calda, si può tentare...
Romilde, che in cuor suo durante il viaggio s'era immaginata qualcosa di peggio da quell'esame, immaginandosi anche di non esser trovata adatta a quella parte, a quelle parole si sentì più rinfrancata.
- Hai mai avuto a che fare coi pitoni? Chiese Amalia.
- No, rispose pronta Romilde.
- Non importa, son quattro regole da imparare.
- Stammi a sentire, disse ancora Amalia; e questa volta con l'aria severa.
- I pitoni costan cari, si vendono e comprano un tanto al metro. Più sono lunghi e più son degni di rispetto; valgono più di tutto quanto il circo, e son la nostra fortuna. Qui dentro, prima vengon loro, poi noi. Questa è la regola.
- Non sono mica cattivi, sai..?
Tutto sta a come si trattano, son come i figli; se mangiano bene e stanno al caldo, non ti rompono la testa.
Loro però mangiano una volta sola alla settimana, ma se li tieni sempre al caldo, va bene anche la quindicina; ed è una gran fortuna, sennò, nelle condizioni in cui sto ora, sarebbero morti già da un pezzo.
Loro non conoscono padrone, ma la mano, si, quella la riconoscono; e il mangiare lo voglion sempre da quella.
- Se non fosse per questo figlio che m'è nato settimino, non li lascerei certo a balia i miei pitoni; ma ho già poco calore per me, e poche forze...capisci, mica li posso dare a casaccio.
Mentre parlava, Amalia, messasi a sedere sul letto, sollevò un lembo della coperta, giù, sul basso. Fu così che Romilde, arrotolate a matassa, immobili e placide, vide le lunghe spire di almeno tre grossi pitoni.
Faceva un certo effetto lo scorger quelle squame colorate e palpitanti, proprio accanto ai lunghi bianchissimi piedi di Amalia.
- Non si muovono nemmeno, te l'ho detto. Disse Amalia.
- basta tenerli al caldo e non dargli fastidi.
- Sai, hanno il sangue freddo, loro...