impara l'arte
1979 fotografia macchina per insegnare
Titolo: Fotografia macchina per insegnare
Appunti per una ricerca sull’uso didattico dell’immagine fotografica
Edizioni Ilford Ciba-Geigy, Saronno.
Centro Televisivo Universitario del Politecnico di Milano
Foto/gram è il nome di un gruppo che opera all’interno del CTU (Centro Televisivo Universitario) della Statale di Milano, e fa ricerca sulle possibilità di usare le immagini, specialmente quelle prodotte con materiali, utensili e procedimenti della fotografia, per insegnare. Del gruppo fanno parte esperti nella didattica, fotografi e grafici. La ricerca di Foto/gram non si conclude in proposte definitive ma in ipotesi verificate quanto basta per avere la ragionevole persuasione della loro utile possibilità. Questo metodo di lavoro è probabilmente imperfetto, ma viene imposto dalla realtà, assai spiacevole, del mancato, o scarso, o errato sfruttamento della fotografia nell’insegnamento. Della fotografia, si vuole dire, intesa come speciali procedimenti, come metodi e mezzi particolari per fabbricare immagini. Naturalmente le immagini fotografiche «finite» - come illustrazione e visualizzazione di vario tipo - sono usate in quantità nell’insegnamento, specialmente come figura del libro, qualche volta nelle confezioni per audiovisivi. Ma le proposte di Foto/gram richiamano ad un caso diverso: è dal lavoro stesso di costruzione della fotografia, che risulta di frequente un «montaggio» di segni progressivo, con risultati sempre più complessi e concettuosi, che nasce l’occasione didattica. Per dirlo diversamente: l’immagine «finita,), il prodotto della fabbricazione fotografica, è altresì la fine, la conclusione di un insegnamento. Non il punto di partenza, come può avvenire nell’uso tradizionale della figura. La scelta di quella fotografica non è occasionale, evidentemente: i procedimenti, gli utensili e i materiali relativi, per la loro speciale qualità, consentono una didattica di questo tipo che non sarebbe possibile con gli utensili, i materiali e i procedimenti del disegno o della pittura. Possiamo chiarire il concetto con una metafora forse meno approssimativa di quello che pare: la costruzione di una immagine fotografica sta alla progettazione di una automobile come la costruzione di un disegno tradizionale alla progettazione di una carrozza. Nel primo e nel secondo caso si tratta di immagini e di veicoli, ma assai diversa è la sapienza necessaria. In questo senso Foto/gram è persuaso che la fotografia può essere un mezzo eccellente per la didattica, disponibile in molti rami dell’insegnamento. Con questo si vuole proprio intendere che la fabbricazione di una certa figura fotografica rappresenta un’occasione valida per parlare di matematica, di geometria, di chimica, di fisica, di disegno ornamentale, storia dell’arte, informatica, statistica, scienze naturali; eccetera. Ancora: per parlarne a differenti livelli, dalla scuola elementare all’università. Tutta la fotografia, anche quella scientifica normalmente intesa, possiede del resto questa complessità fruibile in misure assai differenti: la stessa immagine presa al microscopio è utile molte volte allo scienziato come al fanciullo. Ognuno impara da essa quello che può in rapporto a quello che già sa. Con il medesimo criterio si deve considerare il procedimento di fabbricazione dell’immagine.
1981 bianco & nero e fantasia
BIANCO, NERO E FANTASIA
Storia, tecnica e creatività di una fotografia senza macchina fotografica
Edizioni Ilford, Saronno
A differenza di quanto è successo per altri mezzi espressivi (la musica, il teatro, l’arte visiva in generale), la fotografia, pur disponendo di una incredibile riserva di risorse creative sin dalle sue origini, opera oggi, molto spesso, all’insegna dell’anti-creatività, se per creatività si intende una ricerca di nuove forme e nuovi contenuti, un distacco dai valori tradizionali e dagli usi abituali. Milioni di giovani usano l’apparecchio fotografico per trasmettere informazioni senza rendersi conto che nella presa dal vero la macchina stessa non è una trasmittente ma una ricevente, quando non sia collegata a una centrale effettiva di moltiplicazione e distribuzione delle immagini. Quale potrebbe essere, per fare un esempio, il gigantesco impianto per la stampa di un settimanale a rotocalco. Infatti, il mezzo di informazione indispensabile per assegnare alla fotografia un peso reale, è la macchina da stampa (che richiede l’investimento di un enorme capitale). I fotografi o comunque una grossa parte di essi, soprattutto se giovani, senza rendersene conto (e soprattutto senza possibilità di diffondere con la stampa il proprio lavoro) imitano i divi del fotogiornalismo dei grandi monopoli dell’informazione americani, che non sono davvero creativi, meno che mai in senso estetico-politico. Un discorso sulla creatività fotografica diventa, in concreto, un vero e proprio discorso sulle libertà: libertà d’espressione, libertà dall’immagine, scelta estetica autonoma. Questo è il nostro punto di vista, avvallato storicamente da tutta la tradizione “artistica” del rifiuto dell’immagine “omologata ed omologabile”. Non vi sarebbero state, infatti, tutta una serie di mode, stili, la stessa storia dell’arte, senza ricerca e sperimentalismo, senza il fondamentale arbitrio dei codici, in definitiva, senza il rifiuto di un’immagine come pura rappresentazione di oggetti o fatti. Creatività fotografica è, prima di tutto, il rifiuto dell’istantanea, dell’immagine “rapita” e della sua presunta oggettivita.
1983 fotografia creativa
Tecniche di Fotografia creativa antiche e moderne:
Stampa al carbone, ai pigmenti,alle erbe, alla gomma, frottage, aerografia, calcotipia, fotoceramica, ecc.
Edizioni Il Castello, Milano.
Mai come in questi tempi, il mondo della fotografia ha attraversato un simile momento di «crisi». Crisi di crescita, senz’altro; ma anche di valori. Crediamo, e siamo certi di non sbagliarci, che tutto quanto al mondo vi era di fotografabile sia stato ormai fotografato, e per di più nel migliore dei modi possibile. La tecnica e l’industria della fotografia hanno fatto passi da gigante nel mettere a disposizione sia del professionista che dell’amatore macchine sempre più perfette, materiali sempre migliori nel modo più «democratico» possibile, livellando i costi all’unità di misura più bassa. Questa «democratizzazione» improvvisa ha di fatto rotto la barriera e la linea di demarcazione esistente tra professionalità-arte-amatorialità, omologando i valori e purtroppo in definitiva squalificando le opere: tutte troppo uguali, troppo scontate nella loro impressionante fedeltà di riproduzione del reale. Sia chiaro, il nostro non vuole essere un discorso reazionario. E’ una constatazione! D’altra parte il nostro discorso non è riferito a quel tipo di fotografia, utilissima e socialmente positiva, che va sotto il nome di istantaneità domestica o di reportage. I nostri riferimenti sono diretti alla fotografia come raffigurazione ed interpretazione, alla fotografia come mestiere ed artigianato nel senso della «costruzione» dell’immagine. ~ certo che non si potrebbe parlare di crisi di valori se le fotografie fossero fatte un po’ di più a mano ed un po’ di meno a macchina, cosa del resto fattibilissima. In questo caso si potrebbe parlare, davvero a buon diritto, di immagini diverse, interpretate, artigianali nel senso dell’acquisita professionalità, ed artistiche. Per uscire dalle pastoie della crisi i fotografi ed i professionisti più sensibili e soprattutto gli artisti, in particolare quelli d’oltre oceano, operano in questo senso. Non è un caso. Gli artisti da sempre hanno usato, piegandolo alle loro esigenze soggettive ed arbitrarie, tutto quanto la tecnica più evoluta ha saputo mettere a loro disposizione. Non è un caso nemmeno il fatto che oggi siano proprio gli artisti ed i fotografi americani a tentare nuove esperienze artistiche con Io strumentò fotografico, soprattutto laddove questo strumento si presenta come il meno duttile ed il più banale registratore della realtà. Alle spalle hanno una storia breve ma intensa: quella dell’avanguardia artistica degli inizi del secolo.
1986 il belvedere
IL BELVEDERE
L’affascinante storia delle spettacolari “macchine della visione” e 16 cartamodelli atti alla loro semplice realizzazione in cartoncino.
Collane Tecniche:
Il Castello - Milano
C’e chi afferma che la storia è noiosa, soprattutto gli studenti che devono studiarla e temono di trovare nei libri (e in effetti talvolta è così) solo una sequenza di date e avvenimenti che, in sé, di affascinante hanno poco. Ma se si riesce a penetrare lo spirito, a conoscere e capire i perché e i come oltre ai cosa e quando, se, attraverso la Storia si cerca l’uomo, coi suoi difetti ma anche con tutte le sue qualità, allora “la storia” cambia. Ed è talvolta importante, più importante di Cesare o di Napoleone, l’uomo che non ha fatto ufficialmente “storia”, l’uomo che ha sempre cercato di saziare la sua curiosità, di sciogliere i suoi dubbi, persistendo nei suoi tentativi, testardo e tenace, convinto che certe intuizioni non potevano essere gratuite, sbagliate, campate in aria. Parliamo dello scienziato, del ricercatore. Da millenni l’uomo che ha fatto scienza e tecnica spesso non sapeva di fare scienza e tecnica, ma risolveva problemi pratici. Così inconsciamente è stato per l’inventore della ruota, anche se non Io è stato per Leonardo quando meditava su tutti i perché e i come della sua mente... L’uomo è intelligente e uno dei suoi difetti è anche una splendida virtù: è curioso. Si aggiunga che non solo l’uomo vuoi conoscere, ma vuole anche ricordare. La memoria però, in certi casi, non serve a nulla: si può ricordare ciò che si conosce, ma chi non sa ovviamente non ricorda. Allora bisogna far sapere. E nasce, come nel nostro caso, la ricerca della storia per immagini; quella più semplice, più immediata, che precede la storia di parole, nate molto più tardi, in un processo di evoluzione irregolare, talora lento, talora velocissimo.
1987 l’arte della fotografia
L’ARTE DELLA FOTOGRAFIA
L’ultimo, grande manuale di fotografia artistica.
La stampa d’arte negli antichi procedimenti fotografici.
Ulrico Hoepli Editore s.p.a. - Milano
Un secolo e mezzo, o poco più, dopo l’invenzione della fotografia pura e semplice, un secolo circa dopo l’invenzione della presa fotografica a colore diretto, non è stata ancora detta una parola definitiva sulle possibilità ed il divenire di questo strumento di rappresentazione della realtà. La cultura della visione dovrebbe rendersi conto che un intero settore iconografico è rimasto completamente escluso dall’indagine, sconosciuto all’analisi critica, inesistente, in definitiva, per l’informazione e alla formazione visiva e tecnica.
La fotografia dai suoi albori non ha certo goduto di vita facile, ottenendo tanti successi ma, insieme, critiche e ghettizzazioni culturali a non finire. E secolare ormai la diatriba insorta ed irrisolta circa le valenze artistiche di un prodotto fotografico, e dei rapporti tra arte-fotografia-interpretazione del reale. Nel secolo scorso neppure una serie di procedimenti giudiziari riuscirono a porre la parola fine su questo argomento. Non è intenzione degli autori inserirsi all’interno di questa assurda polemica né, tanto meno, tracciare in quest’opera la storia e l’evoluzione cronologica di un’arte. Siamo però convinti — e questo è quello che tentiamo di dimostrare con quest’opera — che la fotografia, quella storica, oltre ad aver avuto un ‘importanza indiscutibile nell’evoluzione di un sistema, contenesse in sé i germi fondamentali e caratteristici di ogni arte. Lasciando perdere ogni altra considerazione di meriti, siamo più che convinti che nella fotografia ottocentesca siano riscontrabili i caratteri tipici ed essenziali di un ‘arte vera. Produrre oggi, come allora, una stampa fotografica “in usuale”, richiede molto impegno, molta serietà e questo è già sintomo di arte. Lampi creativi e genialità estetica a parte, la costruzione di un vero e proprio “progetto” richiede molta fatica intellettuale, il che non è poco. Occorre infatti, come nelle operazioni tradizionali e tipiche di ogni arte, individuare l’immagine, costruirla pezzo per pezzo, finalizzarla. Occorre cioè porre la propria intuizione al servizio di calcoli, a volte complessi, per poterla tradurre in termini visibili. Tutto ciò, in fotografia, èverità assoluta solo quando il referente non è la presa diretta dal vero di un’immagine, ma la sua elaborazione a mezzo dei processi di stampa.
1987 il teatro dell’ombra
IL TEATRO DELL’OMBRA
Manuale pratico utile alla drammatizzazione e alla realizzazione scenica di autentici spettacoli d’ombra.
Nuova Casa Editrice L. Capelli s.p.a. - Bologna
Il «magico» spettacolo del teatro d’ombre e delle silhouettes che in modo mirabile, su di un’esile tela, è in grado di dar forma e vita ai nostri gesti, alle nostre fantasie, affascinando i bambini, intrigando gli adulti, ha origini antichissime; probabilmente affonda le sue radici nella preistoria stessa dell’umanità. Non ne abbiamo prove, ma ci piace credere che primo schermo furono proprio le volte delle umide grotte della preistoria. Quei primi uomini, che noi oggi chiamiamo «primitivi», alla luce dei fuochi, scoprirono di certo, attraverso il gioco delle ombre, dapprima la propria possente e magica fisicità, poi il senso ed il gusto della motilità delle proprie dita, creatrici di forme improvvise ed musitate. Di certo, lì, le prime immagini ad apparire furono quelle umbratili, cui fecero seguito i graffiti e le incisioni rupestri. Ciascuno è libero di credere o meno a questa rivisitazione degli albori artistici dell’umanità, ma questo volumetto, che tratta di storie d’ombra, ne espone l’evoluzione ed insegna a praticarne l’arte, non poteva esimersi di certo dal tracciare una simile iperbole. D’altra parte, è innegabile il fatto che il teatro delle ombre recitanti è da sempre presente in ogni latitudine ed epoca attraversata dall’uomo, come da sempre è legato ai riti ed ai momenti privilegiati di ciascuno di noi con il dar forma effimera alle fantasie, la fabulazione, i riti, la religiosità. Se le origini dell’ombra sono «oscure», chiaro e semplice è il modo di praticare oggi quest’arte, e noi ci siamo sforzati di renderlo evidente, nella speranza di rendere un contributo al piccolo mondo fantastico che riposa in ciascuno di noi.
1990 il sillabario della fotografia
IL SILLABARIO DELLA FOTOGRAFIA
Introduzione all’immagine nella scuola dell’obbligo
Illustrazioni a cura di Claudio Centimetri
Nuova Casa Editrice L. Capelli s.p.a. - Bologna
A scuola si imparano tante cose. Si impara a leggere, scrivere e far di conto, soprattutto, e poi ancora s’apprendono tantissime nozioni, tutte importanti, ci mancherebbe altro. Purtroppo però non si insegna ai ragazzi né a produrre, né ancor peggio, a capire le immagini. Qualcuno, forse, troverà la cosa normale o semplicemente non vi avrà fatto caso. A noi, un simile atteggiamento nei riguardi del mondo dell’immagine e della sua produzione sembra inadeguato alla realtà del nostro tempo. Siamo convinti che oggi comunicare servendosi delle immagini, in particolare di quelle fotografiche od elettroniche che ne costituiscono la quasi totalità, sia indispensabile quasi quanto saper leggere o scrivere e condividiamo l’idea, espressa dai teorici della comunicazione, che l’analfabeta dell’ormai non lontano ventunesimo secolo sarà proprio colui che non saprà leggere e parlare attraverso l’impiego dell’ immagine. Certo, prima di tutto occorre chiarire i metodi e le finalità operative all’interno dei quali passa l’insegnamento del «visivo» nel mon de a scuola e dell’infanzia. Fotografare a scuola non significa solo insegnare a scattare delle fotografie; attività appariscente, forse gratificante, ma certamente, a nostro avviso, non indispensabile. Significa anche e soprattutto saper usare le fotografie che già vediamo attorno a noi — che sono tante — e saperle interpretare, leggere, capire, apprezzare o anche rifiutare, qualora siano usate per ingannarci.
Infatti come è facile per chi sappia di dialettica e retorica ingannare con le parole, così alla stessa maniera conoscendo il linguaggio delle immagini si può ingannare e spesso si inganna con le fotografie. Prima ancora che imparare a fare immagini bisogna dunque apprenderne la lettura, per saperle «smontare» con atteggiamento critico.
1990 l’amica scienza
L’AMICA SCIENZA
Fisica, chimica e matematica divertenti a casa e a scuola
Cappelli Editore, Bologna
I confronti fra l’occhio e la luce, il nero e la notte, stelle e scintille, vecchi quanto il mondo, non sono certo deftati o voluti da canoni e criteri scientifici; eppure nella loro semplicità espressiva contengono elementi di verità accomunati ad una genuina vena poetica. Ciò fa s’i che anche i fenomeni dei nostri giorni, siano gli unici che parlino un linguaggio universalmente comprensibile dai bambini, dai poeti, ma anche dall’ultimo dei «primitivi». Quello del linguaggio «parascientifico» dei ragazzi è un universo che tra-bocca prodigi e meraviglie, dove i fatti, le prove inconfutabili fornite da natura e scienza, si collegano fra loro con le più ardite metafore, ponti immaginativi, similitudini che la scienza stessa non potrebbe neppure immaginare.
A volte i «legami» sono esatti, più spesso, solo parzialmente, altre, probabili con buona approssimazione; raramente assurdi; ma, anche nel caso estremo, degni di considerazione perché, come dimostra l’esperienza, un «quasi errore» aiuta e stimola nella comprensione di un «prodigio» più di una verità parziale, difficile però da decifrare. E pensando a queste cose, a noi stessi bambini che, nella stesura di questo libro, ci siamo posti una domanda precisa: «quale linguaggio...?»: Quello della scienza, esatto, preciso, concatenato e iniziatico, o quello «cervellotico», schematicamente scientifico ma frammentario dei «volgarizzatori» dell’ottocento positivistico...? Pensavamo che il problema fosse di facile risoluzione, all’interno di una traccia mediana, ma ci siamo dovuti ricredere. Rileggendo quanto abbiamo «gettato» nella prima stesura, ci siamo resi conto de Il ‘equivoco in cui eravamo incorsi. Il nostro non era né un libro di scienza, né un testo parascientifico; al primo veniva meno il rigore, lo schematismo oltre che la logica evoluzionistica; al secondo, il candore, il gusto della scoperta, l’incanto del «gioco». E che dire del linguaggio «mediano»?: un «Esperanto» risibile per l’uomo di scienza, arido e d e-immaginativo per gli altri. Ecco perché abbiamo scelto un percorso definitivo antitetico e sotto certi aspetti «trasgressivo»: un itinerario non solo linguisticamente senza senso, ma aperto a tutti i sensi possibili ed impossibili, in cui il testo ha il solo scopo di tendere a una base formale, stabilire un rapporto, imbastire un canovaccio di omogeneità.
1994 lo sfogliafoglia
Sfogliafoglia
Con le foglie alla scoperta dell’educazione all’immagine
Editrice Janus, Bergamo
Avviene con una certa frequenza che - particolarmente nella stagione autunnale - l’abbondante disponibilità di foglie divenga occasione, e al tempo stesso motivazione, per il loro utilizzo in ambito scolastico, a livello di classi elementari. Talvolta esse sono materiale per una semplice raccolta, talaltra elemento per una conoscenza minima della vegetazione locale; in qualche caso divengono sussidio per le prime classificazioni o supporto per attività manuali. In genere, il fatto ha carattere di estemporaneità e si esaurisce in un tempo relativamente breve, purtroppo senza dar luogo a significativi agganci con obiettivi e contenuti più propriamente curricolari della programmazione didattica. Questa connotazione del “fenomeno”, come iniziativa a sé stante, si presenta con maggior evidenza nelle attività di tipo manipolatorio - i cosidetti “lavoretti” -, nella cui esecuzione l’aspetto preminentemente occupazionale e l’impaziente tensione al prodotto ultimato finiscono per minimizzare e soffocare le buone intenzioni di perseguire finalità didattiche. E poiché nelle indicazioni dei nuovi programmi per la scuola primaria, nella legge n. 148/90 concernente i nuovi ordinamenti e nelle successive disposizioni ministeriali relative alla valutazione degli alunni, si avverte - come nota costante - la sottolineatura dell’unitarietà dell’insegnamento, alla quale concorrono indubbiamente anche i collegamenti e la coesione fra le proposte didattiche, gli autori del presente volumetto ne hanno tratto motivo per riflettere sul problema e offrire un modesto contributo ai fini del suo superamento o, quanto meno, per abbozzare una fra la tante soluzioni pensabili. Principalmente due sono i fattori determinanti la eccessiva “autonomia” delle attività in esame:
l’estemporaneità e lo scarso coordinamento con la programmazione. I suggerimenti qui raccolti affrontano il primo, cercando di dimostrare che il possibile utilizzo di foglie non è necessariamente limitato al solo periodo autunnale, ma è estensibile a qualsiasi stagione dell’anno, a patto di scegliere le modalità e le esperienze più adatte. Quanto alla seconda questione, si parte dalla convinzione che l’attività come fine a se stessa non ha diritto di cittadinanza nella scuola e pertanto ogni iniziativa pratica può e deve essere funzionalizzata o alla integrazione o, almeno, a fornire spunti di approccio ad argomenti ed obiettivi di curricolo.
Il che, sempre a giudizio di chi scrive, può essere realizzato muovendosi in due direzioni:
a) puntando sull’educazione all’immagine come canale privilegiato a cui tutte le esperienze illustrate nel testo sono per più versi riconducibili (e questo giustifica le specifiche considerazioni cui è stato dato spazio);
b) individuando quelle che, con termini impropri, sono state catalogate ed enunciate come “spunti per collegamenti multidisciplinari”, includendovi alcune indicazioni (tra le molte proponibili) per un passaggio non arbitrario dal “fare” al “conoscere”, dall’abilità operativa alla costruzione di cultura.
Nel fare ciò, abbiamo volutamente evitato la sistematicità, limitandoci ad aprire, ogni volta, prospettive su qualche materia scolastica diversa e lasciando ampi spazi alla libera ricerca del docente, per quanto riguarda le altre discipline.